Gentile di Nicolò di Massio detto Gentile da Fabriano (Fabriano 1385 ca - Roma 1427) - Pinacoteca nazionale

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Gentile di Nicolò di Massio detto Gentile da Fabriano (Fabriano 1385 ca - Roma 1427)

Artisti
 


a. Santo Apostolo 
1410/1415 tavola, 
cm 23,4 x 8,2 inv. 7155 
Iscrizioni: (sul retro, a pennello) 76

b. Santo Apostolo con libro 
1410/1415 tavola, cm 23 X 8,3 inv. 7156 
Iscrizioni: (sul retro, a pennello) 82

Provenienza: ignota (Soppressioni 1797-1810: Fonti 1997, p. 723) 
Cataloghi: Giordani 1845, p. 40, nn. 319-320; Giordani 1872, p. 56 


 
scheda delle opere dal catalogo della Pinacoteca

Entrambi i personaggi parrebbero Apostoli, anche se mancano attributi utili alla loro identificazione: il secondo, qualificato da un libro, è probabilmente un Evangelista. Due ampie cadute di colore, malamente risarcite, offendono la tavoletta n. 7155 nella parte centrale, determinando la perdita di parte del viso dell'Apostolo, mentre la seconda, più integra nell'immagine, risulta mancante di un'ampia porzione di legno sul lato sinistro, forse in seguito al traumatico strappo dall'incorniciatura che doveva legare entrambe a un complesso di vaste dimensioni (il bordo coperto in origine dalla cornice presenta una ridipintura di restauro color rosso-violetto). Al di là di questi e di altri danni minori, la superficie pittorica si presenta in ammirevole stato di conservazione. I dipinti, mai presi in considerazione in tempi recenti, parrebbero da identificare con due dei «Quattro quadri rappresentanti quattro Appostoli. Alti P[almil 1 larghi Once 4 ciascuno. Idem [Tavola]» citati ai nn. 566-569 nel catalogo manoscritto del 1820: le misure indicate corrispondono infatti a cm 22,3 X 7,4. Già nel 1845 ne sussistevano però solo due, schedati da Giordani come «Greci dei bassi tempi di maniera bizantina. Due figure piccole di Santi Apostoli, quadretti separati», che il 28 dicembre 1882 vennero ceduti in deposito all'Arcivescovado entro cornici dorate: le stesse entro cui sono stati conservati finora in una camera della foresteria dell'appartamento arcivescovile di villa Revedin (Fonti 2004). Com'è facile appurare dagli identici caratteri d'immagine e di stile, oltre che dalle dimensioni assai simili, dall'identità dei nimbi, dallo stesso colore vinaccia di restauro nel bordo e dalla presenza nel retro di numeri di collezione scritti con gli stessi caratteri, altri due elementi della serie, probabilmente gli stessi posti in vendita dalla Pinacoteca prima del 1845, erano già da tempo noti agli studi. Si tratta del San Pietro e del San Giacomo della collezione Berenson a Settignano, ora di proprietà dello Harvard Center for Renaissance Studies (cm 23,5 x 8,6 e 22,3 X 6,5), ritenuti del Pisanello fin quando Carlo Volpe non ebbe a restituirli a Gentile da Fabriano (1958): un riferimento quest'ultimo assolutamente ineccepibile sul piano dello stile, oltre che confermato su quello storico. Se Volpe, seguito da gran parte della critica recente (Christiansen, in Pinacoteca di Brera 1992, pp. 137, 321; De Marchi 1992a, p. 55, fig. 31), aveva ipotizzato che le due tavolette si trovassero in origine luogo lungo i pilastri laterali del polittico dell'eremo di Valleromita presso Fabriano, i cui scomparti maggiori si conservano ora nella Pinacoteca di Brera a Milano, la scritta nel retro del San Giacomo, in parte letta da Volpe ma solo di recente integralmente decifrata grazie all'apporto di adeguati strumenti d'indagine (Gentile 1993, pp. 27-30), con-sente di indicarne una diversa provenienza. Vi si dice infatti: «Fragmenti ch(e) era nella capella overo (al)tare n(ost)ro di casa Sandei nella chie(sa) [..1 quando io la feci raconcia(re) (l'an)no 1610. cioè dalle bande della palla con certi intagli all'antica i quali da' tarli erano corrott(i) per la longhezza del tempo» (sono grato a Matteo Mazzalupi che, avendo di nuovo verificato la scritta sulla riproduzione, ne ha migliorato la lettura, così che ora è possibile precisare che i frammenti provenivano non «dalle parte» ma «dalle bande della palla», ovvero dai pilastri laterali). Si tratta dunque di un polittico già sull'altare della famiglia Sandei nella chiesa veneziana di Santa Sofia, evidentemente lo stesso contenente Sant'Antonio Abate e Paolo Eremita ricordato come opera di Gentile da Francesco Sansovino (1581, ed. 1663, I, p. 147) e da altri storici locali prima della sua asportazione, avvenuta, come permette d'intendere la scritta stessa, intorno al 1610. Legandosi a quel complesso, i due Apostoli bolognesi permettono di argomentare ulteriormente le indicazioni già fornite dalla critica circa la vicinanza cronologica tra il polittico di Santa Sofia, al quale è stato dubitativamente collegato un frammentario San Paolo Eremita già in collezione Loeser a Firenze (Christiansen, in La pittura in Italia 1987, 1, p. 124, e quello di Valleromita, capolavoro assoluto di Gentile e testo tra i più alti, tra il 1405 e il 1412, della cultura tardogotica in Italia. Si vedrà in particolare come il bordo d'oro del manto color ciclamino dell'Apostolo n. 7156 riproponga, pur nel minuscolo formato, gli andamenti ondivaghi di quello del San Girolamo in uno degli scomparti dell'ordine principale del polittico ora a Brera e come la parti

colare tecnica "puntillista", grazie alla quale le parti in luce del manto verde dell'altro Apostolo si realizzano attraverso un effetto di pagliuzze dorate, torni in numerosi passi del polittico, ad esempio nel soppanno della Vergine nello scomparto centrale con l'Incoronazione. Già Volpe, procedendo al confronto tra i due Apostoli Berenson e il polittico di Valleromita, notava del resto «l'identità, ed è già un dato più interno, nei segreti tecnici operati: dal tratteggio sull'oro fino, alla velatura di lacche leggere, sull'oro modellato dolcemente da un chiaroscuro impalpabile, pulviscolare»; un dato che rimanda a quella perizia esecutiva, dettata da un'inesauribile ansia di sperimentazione, che la critica moderna, ad opera soprattutto di De Marchi, ha utilizzato per restituire al grande maestro marchigiano quel ruolo protagonistico che già gli riconosceva la letteratura coeva e che costituisce un aspetto di primaria importanza nella definizione del naturalismo tardogotico. A ciò si aggiunge quella sempre duttile e variata capacità di lavorare sui propri modelli riconducendoli a unità, in virtù della quale le immagini testé ricuperate potranno giovarsi dello stesso giudizio espresso da Volpe, che per le due tavole Berenson parlava di «pigri, elegantissimi apostoli», commentando da par suo il San Paolo «tutto panneggio, che si espone come un manichino alla moda apostolica, torcendosi lentamente», ed elogiando non meno «il moto trasognato e patetico» del San Pietro. Nel nostro caso andranno apprezzati, in ordine a pensieri assai simili, il modo con cui l'Apostolo in verde s'inarca solennemente verso sinistra, raccogliendo contro il grembo l'abbondante panneggio, e il gesto di trattenuta energia con cui quello in rosa, incedendo risolutamente verso sinistra, si volge per aggiustare sulla spalla il manto che lo drappeggia: immagini di straordinaria monumentalità, per le quali sarà da valutare l'apporto recato, dopo la prima formazione lombarda e giovanniniana, dalla conoscenza da parte di Gentile della più fiera scultura veneziana, in anni cui egli lavorava assiduamente in laguna. È possibile a questo punto ipotizzare, come suggerisce Andrea De Marchi, che le tavolette fin qui ricuperate costituissero un ciclo apostolico disposto lungo i due pilastri laterali del polittico che, conteggiando la variabile rappresentata dal coronamento a pinnacoli, avrebbe così potuto raggiungere i 180 - 200 cm circa di altezza.
Bibliografia: inediti (segnalati nei cataloghi).
DANIELE BENATI

 
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